Omologazione e interscambio

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Ciò deriva dal fatto che l’emergere di uno stile di vita globale – come già faceva notare John Naisbit nel suo volume sui megatrend – non significa omologazione ma interscambio, prendere a prestito gli uni dagli altri, giocare nel cortile altrui”. Se i giapponesi vanno pazzi per tutto ciò che è made in USA, gli americani hanno importato sushi bar al ritmo di Toyota: se la pizza ha perduto il suo connotato di origine e si è internazionalizzata, gli spaghetti conservano una forte identità italiana e vengono chiamate spaghetti dance le discoteche in stile italiano, anche se in California vi è una produzione di pasta di semola che ha superato le quantità prodotte dall’industria alimentare di casa nostra. In tutto il mondo, del resto, i ristoranti di cucina etnica delocalizzata sembrano essere diventati il nuovo must del mangiar fuori e le contaminazioni tra i sapori, le preparazioni e, soprattutto, “gli stili alimentari” sono all’ordine del giorno e contribuiscono ad arricchire il paradigma della ibridazione che sembra connotare tutti i fenomeni tipici della postomodernità. Sull’etichetta dei capi di vestiario parigini c’è scritto, orgogliosamente, “made in France” ma la centralinista che risponde al telefono del quartier generale di Alcatel, una delle prime reti di telecomunicazioni del mondo, dice “good morning”, e si sa quanto i francesi siano sciovi in fatto di lingua.
Fenomeno contraddittorio, quindi, la globalizzazione nel campo delle manifestazioni che si ricollegano alla sfera più profonda della persona, essa tende a far dialogare le diverse identità delle grandi aree del mondo. Si pensi alla trasposizione spontanea di riti e delle celebrazioni da una cultura all’altra, come il Natale in Giappone, dove i cristiani sono meno dell’uno per cento della popolazione, o la festa di Halloween, di origine celtica ma poi tipicamente americana, che si è diffusa tra le comunità giovanili nei paesi dell’Europa meridionale. Ed è significativo, forse, il fatto che entrambi i riti si ricolleghino al solstizio d’inverno, quasi a dire che – non potendo attirare partecipanti da lontano, poiché i turisti preferiscono spostarsi d’estate – i riti stessi si siano fatti importare in differenti contesti socioculturali.

Il filosofo Emanuele Severino ha parlato di “globalizzazione nella frantumazione” per la permanente “molteplicità delle tecniche specialistiche” ed è ritornato su questi concetti,collegandoli
con il senso della tradizione che sta agli antipodi di tutto ciò che è omologazione, nel saggio pubblicato sull’ultimo numero di MicroMega. In effetti, come già faceva notare, tra i primi in Italia, l’economista Antonio Martelli analizzando gli scenari possibili del prossimo futuro, “la fine del secolo è stata contraddistinta da una contraddizione esplosiva: da un lato il pianeta si è globalizzato grazie alle comunicazioni e alle tecnologie, dall’altro si è parcellizzato a seguito dell’emergere di stutture e istituzioni micro e dell’indebolimento delle strutture intermedie, sia a livello sociale che politico”.
E in effetti, poco dopo, le contraddizioni sono esplose a Seattle durante i lavori del World Trade Organizzation che rappresenta l’emblema della globalizzazione economica. Ma anche qui occorre fare un chiarimento per non cadere nelle analisi fuorvianti che rischiano di non farci comprendere le tendenze forti che attraversano il mondo di oggi. Anche il mondo del turismo e le sue dinamiche.
All’inizio molti osservatori avevano interpretato gli scontro di Seattle, che poi si sono ripetuti in altre città ogni volta che si riuniscono istituzioni sovranazionali, come una reazione “uguale e contraria” al processo di globalizzazione. Ma il no global è un fenomeno molto più fluido di quello che appare, perchè non siamo in presenza di un’azione centralizzata, globalizzante, e di una reazione altrettanto unitaria, quanto in presenza di una polluzione decentralizzata di spine contrastanti e di particolarismi locali che si collegano in una rete globale. Siamo in presenza, cioè, di un processo che deve essere definito “glocalize” coniato dal semiologo francese Armand Mattelart”, per definire la coesistenza dinamica tra globale e locale, come quando una corrente di energia – non per reazione uguale e contraria, ma attraverso la creazione di campi magnetici – quella che i fisici chiamano “corrente di induzione” di segno opposto.

Non vi è conflitto fra due spine, quindi, ma vi sono correnti e campi magnetici multipolarizzanti, com’è evidente nella ragnatela di interessi e di particolarismi culturali che si concentra nel contenitore culturale del “popolo di Seattle” dove non è necessario riscontrare la verità delle presenze e contraddittorietà delle rivendicazioni per comprendere la peculiarità globale del fenomeno. Già negli anni ’80, del resto, il futurologo Alvin Toffler scriveva: “i leader di domani avranno a che fare con una società ancora più ricca di differenze, ancora più partecipativa”. Oggi, quindi, la diffusione magmatica di tanti campi magnetici e correnti di segno opposto che attraversano il mondo e il mercato, di rivedere tradizionali impostazioni di marketing management delle multinazionali calibrate sulla dimensione di un unico mercato globale.

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di Giuliano Faggiani

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