Il ponte sullo stretto come opera di regime o come progetto di valorizzazione del territorio
Grandi opere di immagine e territorio compromesso da riqualificare.
“Ponte sullo stretto”: enfatizzazione del progetto e analisi dei reali benefici per lo sviluppo economico dell’area. Le ricadute sul turismo.
Integrazione con i sistemi urbani delle due sponde e con la rete dei trasporti.
Valorizzazione dell’ambiente e dell’indotto.
I modi con cui stiamo entrando nella seconda Repubblica non possono non preoccupare chi si occupa di territorio e ambiente., sia per le “regole “ attraverso cui si intenderebbe operare, che per i contenuti delle politiche d’ intervento di breve periodo che si stanno proponendo. Certo è presto per dare giudizi definitivi, ma i primi segnali sono promettenti. L’ipotesi di rimettere in piedi l’economia scegliendo “lavori pubblici” immediatamente cantierabili e di forte immagine, ha il sapore di “opere di regime” e non giova ad un territorio complesso e difficile come quello italiano. Possibile che la ricetta per una nuova svolta economica debba passare per ulteriori manomissioni ambientali del nostro Paese? Possibile che per farlo occorra metter mano alla delegittimazione del complesso di regole che lega il processo decisionale delle politiche territoriali, dell’ideazione fino alla realizzazione?
Uno dei dati che sembrano emergere nella richiesta di cambiamento di governo, stava nella presa di coscienza delle relazioni diverse, inedite, che la nostra società ha col proprio territorio e con l’ambiente. La generazione post-industriale che si profila ha infatti dinanzi a sé un’organizzazione insediativa differente dal passato, un territorio compromesso da riqualificare,ma soprattutto relazioni, tempi e modi d’uso qualitativamente e quantitativamente diversi dello spazio fisico. Ciò che pareva necessario, già dalle prime scelte, sarebbero state attente valutazioni su come la nostra società debba ragionare sul futuro delle sue varie componenti, sulle esigenze di innovazione e, soprattutto, sulle relazioni tra risorse economico-finanziarie ed ambiente così come sulle “regole”, certamente diverse, più contestuate, (forse meno garantiste) che occorre darsi per operare.
Un esempio emblematico della superficialità con cui si sta operando è in molte dichiarazioni di rinnovato interesse sull’attraversamento dello Stretto di Messina: tra le opere che il nuovo corso politico sta ponendo al centro dell’attenzione c’è, infatti, il “Ponte sullo Stretto”, se ne sta enfatizzando a più riprese l’importanza che potrà avere, una volta realizzato, per lo sviluppo dell’economia e del turismo in particolare.
Non si può non rimanere perplessi come il Ponte è stato offerto all’opinione pubblica nazionale e regionale: un’opera significativa tra quelle “cantierabili” o quasi, in grado di rappresentare il volano per il rilancio dell’economia siciliana (una quota forse del milione di posti di lavoro promessi da Berlusconi).
E’ evidente che le giustificazioni addotte non convincono nessuno per come sono state presentate e sarebbe il caso di fornire (e se non ve ne sono, richiederne) motivazioni più compiute sugli esiti che l’opera potrà avere – una volta realizzata – sulle diverse attività economiche.
Certo di fronte ad un’opera così complessa (e nelle incerte prospettive di lungo periodo dell’economia) le tradizionali valutazioni costi-benefici non servono e quelle del tipo costi-efficacia, prevalentemente qualitative, sembrano lasciare impregiudicati troppi aspetti. Il compito non è facile, ma il problema è un altro: dietro quest’opera non c’è un “piano”, non c’è un progetto più complessivo che leghi il “Ponte” ai territori che investe, alle economie cui sottende. Le ricadute sui settori produttivi (così come sul turismo) sono di conseguenza solo intuite, poco più di come l0 potrebbe fare l’uomo della strada e non c’è adeguata credibilità, quindi, nelle indicazioni sul diverso futuro produttivo.
Era allora il caso di prendere quest’opera come un coniglio dal cappello del prestigiatore, come simbolo del cambiamento che ci attende?
Tuttavia la questione del ponte non può essere liquidata con poche battute. E’ il caso, perciò, di riprendere il tema negli aspetti che riguardano più direttamente questa rivista, non foss’altro come pretesto per ragionare sul senso più generale delle cose che stanno avvenendo (e di come invece vorremmo che avvenissero)
Vorrei precisare che non sono pregiudizialmente contrario alla realizzazione del ponte e che considero il “progetto” in sé interessante. Cercherò però di distaccarmi da questo giudizio del tutto personale (fors’anche in gran parte empatico) e che può far inorridire qualche ambientalista, per porre la questione sul piano metodologico, evidenziando modi più opportuni per agire, se si vogliono costruire – in relazione al ponte – adeguate politiche di settore.
Il richiamo è alle logiche di impresa e alle ragioni dell’ambiente su cui ho avuto modo di scrivere nel fascicolo speciale di “AT” sul rapporto fra ambiente e turismo.
Sul tema dell’attraversamento stabile dello Stretto di Messina si è discusso molto. L’idea parte da lontano: Scilla e Cariddi, i due punti contrapposti sono antitetici e complementari nello stesso tempo e il tentativo di raccordarli fa parte dell’immaginario dell’uomo così come delle sue potenzialità; nulla di male in ciò.
Così valore simbolico (la congiunzione delle due sponde) e valore pratico (l’attraversamento) si sono più volte confrontati nella successione delle suggestioni, delle proposte, dei progetti che hanno caratterizzato la lunga vicenda dall’inizio del secolo.
Dopo il Concorso Internazionale bandito dal Ministero LL.PP. nel 1969 per individuare le soluzioni più adeguate, la vicenda ha preso piega più lineare.
Costituita la Società pubblica, Stretto di Messina Spa, il Parlamento ha richiesto, per poter valutare l’effettiva realizzabilità dell’attraversamento, un progetto
Nella prima fase delle elaborazioni(fra l’80 e l’85) accanto alle scelte del tipo di manufatto per l’attraversamento, con la progettazione di massima erano state effettuate valutazioni economiche ed urbanistiche sulle conseguenze territoriali e sulle modifiche dei sistemi di trasporto.
Dopo questa fase, in cui si è individuato il “Ponte a campata unica” come struttura più adeguata per l’attraversamento, l’attenzione è stata rivolta soprattutto alla sua progettazione tecnologica. Se ciò, da una parte, è stato ragionevole (una travata da ponte di tremila metri di luce non è stata mai realizzata al mondo) dall’altra non si comprende il perché dell’abbandono degli studi sull’indotto che la realizzazione del manufatto avrebbe determinato.
Ora la Società Stretto di Messina dovrebbe andare al confronto col Parlamento. E’ quest’ultimo che dovrebbe decidere sull’opportunità di andare avanti e passare alla fase attuativa.
Certo si incrociano molti fatti, in questa decisione, c’è il problema del consenso a livello nazionale e locale sull’opera che non è ancora acquisito e che per la sua importanza culturale non può essere sottovalutato; c’è il problema delle risorse finanziarie pubbliche ed eventualmente private (si parla di capitali giapponesi propensi all’investimento) per la sua realizzazione.
Ma c’è un’altra ragione che rende difficile la scelta: l’osservanza del progetto “territoriale” prima richiamato.
Su questo argomento sarebbero opportuno almeno due ordini di considerazioni.
Il primo, sull’opportunità di pensare all’impatto dell’opera attualizzando il campo delle analisi e delle valutazioni fatte negli anni ’80; ciò che è avvenuto da allora non è di poco conto, sia sul versante delle trasformazioni degli assetti insediativi, sia su quello delle comunicazioni e dei trasporti pubblici e privati.
Non tutte le convenienze allora individuate sono ancora tali (basta pensare al trasporto aereo per la media distanza) e, d’altra parte i sistemi produttivi – anche attraverso l’innovazione – hanno evidenziate alternative non necessariamente legate alla fisicità dei passaggi di informazione. Quest’ordine di considerazioni coinvolge fra l’altro il problema di riattualizzare i tempi effettivi di realizzazione ed i costi dell’opera su cui l’esperienza del tunnel sotto la Manica non può che farci riflettere.
L’altro ordine di considerazioni riguarda l’opportunità di ricollocare il “Ponte”, così come è stato progettato, all’interno dei sistemi urbani che si prospettano sulle due sponde dello Stretto e da lì risalire agli assetti territoriali cui sottendono, fino alle reti di trasporto. In altri termini, per quanto riguarda il turismo, non è tanto il ponte ad interessare, quanto le relazioni fra ponte e territori investiti.
In una recente tavola rotonda su questo tema organizzato da “La Repubblica” (24.6.94) si affermava: “…..se
Il ponte è una struttura che ci permette di ragionare in termini di alta velocità, sistema ferroviario integrato, rapporto con i porti, all’interno di un progetto globale di infrastrutture , trasporti e telecomunicazioni, allora il ponte ha una sua validità,,,,diversamente la presenza di un ponte è irrilevante”.
Più oltre si valutava l’incoerenza fra i sistemi di mobilità locale e a grande scala e l’attraversamento stabile dello stretto: i primi in Sicilia sono in grave ritardo e poco inciderebbe il ponte se gli stessi non fossero adeguati, in tempi relativamente brevi. Quali vantaggi, perciò, per il turismo in un sistema di mobilità che avrebbe solo una apparente accelerazione dei tempi di spostamento, ma di fatto si arenerebbe su reti portanti e minori inadeguate?
D’altra parte, rispetto all’indotto, è l’area dello Stretto un contesto adeguato per la valorizzazione del “Ponte” e viceversa è il Ponte in grado di valorizzare l’area dello Stretto?
Sotto il profilo teorico non si può che rispondere positivamente ad entrambe le domande. Nell’area dello Stretto alcuni caratteri ambientali, storici, culturali, sono esaltati non solo da un passato lontano (la Magna Grecia e prima ancora la magia di Scilla e Cariddi) ma ancora arricchiti e resi suggestivi dal condizionamento esercitato dai fenomeni naturali (l’aspra morfologia, la struttura delle coste e, perché no , le catastrofi) sull’”habitat”.
Ma fra queste suscettività e l’offerta concreta di ambiente che il turismo può far suo per sviluppare attività e produrre c’è oggi una distanza naturale. L’ambiente naturale, le città, i loro valori, si confrontano con il loro degrado.
Non si può perciò pensare a un indotto se non si pensa prima di tutto al progetto di riqualificazione del suo territorio e quindi alle potenzialità di valorizzazione.
Se non si usa i progetto del ponte come un’azione di cui definire preliminarmente l’indotto e da qui formulare progetti operativi per l’ambiente dello Stretto di Messina è vano chiedere al Paese pareri favorevoli sulla convenienza e l’opportunità di costruire il Ponte sullo Stretto. Il che non esclude ovviamente il dovere del nostro Parlamento di esprimersi sulla morfologia e sulla tecnologia che si intende realizzare. Ma non consente facili illazioni di altro genere e tanto meno salvifiche indicazioni per l’economia
di Giuseppe Imbesi