Responsabilità comuni e partenariato

Le leve dello sviluppo sostenibile

Per comprendere le ragioni che hanno portato ad avviare un progetto sull’Appennino, con la sigla che oggi lo contraddistingue, bisogna ancora una volta richiamarsi alla Conferenza Nazionale sulle Aree Protette. Da questa Conferenza è uscito il progetto con il quale si vuole realizzare il sistema nazionale delle aree naturali protette laddove, per sistema nazionale, si intende il sistema dei parchi, ma anche il sistema di tutte le 508 aree protette attualmente iscritte in quell’elenco ufficiale che, molto probabilmente, si allungherà, anche in maniera considerevole, nel corso dei prossimi anni, soprattutto per iniziativa delle Regioni. D’altra parte, nel nostro Paese sono già stati istituiti 18 parchi nazionali, ai quali dovrebbero presto unirsi quelli della Val d’Agri, del Gennargentu e del golfo di Orosei. Rimane aperta la questione del delta del Po che,stando alle parole del Ministro, che ha dichiarato caduta l’intesa con le Regioni del Veneto ed Emilia Romagna, dovrebbe essere destinata per legge a parco nazionale, pur non avendo i requisiti di un’area protetta. Nel frattempo, in base alla legge 344 del ’97, altri nuovi parchi nazionali si sono aggiunti alla lista, rispettivamente nelle Cinque Terre, all’Asinara, nell’appennino tosco-emiliano e Sila. Quest’ultimo, è in realtà il prodotto dell’adeguamento del vecchio Parco Nazionale della Calabria alla 394, che ne dispone il passaggio dall’amministrazione del Corpo Forestale dello Stato all’amministrazione autonoma, prevista per i parchi nazionali, che sono appunto Enti di diritto autonomo, soggetti all’amministrazione del Ministero dell’Ambiente. Ma in questo affollatissimo panorama esiste tutta una serie di altre aree protette che,nella maggior parte dei casi, sono frutto di previsioni di carattere regionale. L’istituzione di molti di questi parchi è stata infatti prevista dalle Regioni, in sede di adeguamento della propria legislazione alla 394 che è appunto la legge quadro per le aree protette. Nel Lazio, peraltro, l’approvazione della legge regionale è recentissima.

Un altro strumento legislativo molto praticato dalle Regioni è la 142, in base alla quale sono stati istituiti numerosi parchi regionali e aree protette. E’ pertanto evidente che tutto questo sistema, nel quale confluiscono varie tipologie di aree protette, non può essere costruito in modo omogeneo e, quindi, non può essere governato solo dal centro. Mai come in questo caso è dunque necessario che alla politica nazionale partecipino tutte le amministrazioni, da quelle regionali a quelle locali, nonché tutte le rappresentanze delle varie categorie economico-sociali.
Questo è appunto il quadro che è emerso, in modo molto chiaro, dalla Conferenza Nazionale sulle Aree Protette. Ma in questa sede si è anche sottolineato che il sistema nazionale delle aree naturali protette deve essere costruito attraverso grandi progetti, che sono poi quelli relativi ai grandi sistemi
ambientali e territoriali del Paese, come le Alpi. Ed ecco il riferimento della Convenzione Internazionale delle Alpi e il ritardo nella ratifica da parte dell’Italia. Un ritardo che rischia di compromettere il ruolo che il nostro Paese può svolgere all’interno di una vicenda come quella relativa al sistema alpino, di cui l’Italia possiede tutto l’arco meridionale e, quindi, la porzione più estesa. L’altro riferimento importante riguarda invece il bacino del Po e l’istituzione che lo governa.

Il problema dell’affollamento istituzionale

Se è vero, infatti, che in Italia l’affollamento istituzionale costituisce un problema, il ruolo svolto dall’Autorità Nazionale del Bacino è assolutamente fondamentale. Vi è poi tutto il discorso dell’Appennino, all’interno del quale sta emergendo un orientamento che vede positivamente il ruolo della Regione Toscana come capofila, e quello relativo alle piccole isole, un altro tematisno che a sua volta implica una serie di specificità, come nel caso della Sicilia e della Sardegna. Il chè induce anche ad affrontare la problematica relativa alla fascia costiera che, al pari di quella appenninica, non può essere considerata come un sistema omogeneo e che va invece articolata per progetti diversi. Sotto questo profilo, ha forse ragione chi,negli anni passati, sosteneva la necessità di pensare in termini di arcipelago di parchi, come nel caso del litorale toscano che va dalle Secche della Meloria fino all’Argentario. Del resto questo stesso esempio è piuttosto indicativo di come, sulla base dell’indirizzo politico-culturale che è emerso dalla Conferenza, un progetto che dovrebbe riguardare una sola regione, si presti ad assumere rilievo nazionale.

E siccome i progetti camminano se riescono a intrecciare i movimenti di fondo della società, ambientalismo e federalismo si ritrovano in questo di approccio. Ciò comporta, laddove il federalismo non venga inteso come forza centrifuga, una progettualità che non resti chiusa in se stessa e che contemporaneamente punti, per i suoi contenuti ambientali, su uno sviluppo che faccia della tutela e della valorizzazione i propri obiettivi di fondo, senza tuttavia dimenticare che, per realizzare un progetto di questo tipo, è necessario contrastare il protagonismo delle Regioni che, sia pure in scala ridotta, tende a riprodurre il centralismo statale. In questo senso, quindi, il principio di coordinamento e richiamo dell’Unione Europea nel suo quinto programma per uno sviluppo durevole, è una delle leve dello sviluppo sostenibile, in quanto contribuisce ad integrare la politica ambientale con le altre politiche, in un’ottica di sostenibilità. In altri termini, se ci troviamo sulla costa, non ha senso parlare di parchi senza parlare delle marinerie, della pesca e dell’attività turistica tipica di quelle aree, per riconvertirla o per favorirla, ove non fosse sviluppata. Allo stesso modo è chiaro che, nelle aree montane, non si può parlare di parchi senza ragionare delle attività di manutenzione e di tutela del territorio, ma anche di quale tipo di agricoltura, di commercializzazione e di strategie di presenza sul mercato sia più opportuna per questi prodotti. E non basta, perché ancor prima di questo, occorre affrontare il problema dei servizi territoriali, senza i quali, non solo è difficile fare turismo, ma è addirittura impossibile trattenere i residenti.

Ma esiste anche una seconda leva, che è poi quella della condivisione delle responsabilità. Ciò vuol dire, in primo luogo, che il progetto di costruire un grande sistema di aeree protette nel Paese non appartiene solo al Ministero dell’Ambiente. In questo senso,sopprimere il Comitato per le Aree Naturali Protette è stato un errore gravissimo di cui le Regioni sono le prime responsabili. Sono state le Regioni, infatti, a volere la soppressione di un organismo che la legge quadro aveva previsto proprio nella consapevolezza dell’attrattività che il ricorso allo strumento delle aeree protette avrebbe potuto esercitare in un Paese ricco di risorse naturali, ma anche storico-culturale. A differenza di altri Paesi europei, le risorse sono distribuite in modo più rarefatto, ovvero più concentrato, in corrispondenza di alcuni massicci centrali o di alcune aree costiere, è chiaro che una politica di questo tipo, che incontra nel Paese una così vasta capacità di diffusione, non può essere non può essere competenza di un solo Ministero. Tanto è vero che, all’interno del Comitato, erano rappresentati ben sei Ministeri ed altrettante Regioni con voto deliberante, mentre tutte le altre disponevano comunque di un potere consultivo.

La terza leva, infine, è quella della partnership, ovvero del partnerariato che deve coinvolgere tutti, dalle associazioni ambientali a quelle di categoria, dalla associazioni dei produttori a quelle dei distributori, in una progettualità che viene dal basso. In estrema sintesi, un progetto che intenda costruire un sistema delle aeree protette, deve saper lavorare su queste tre leve, nella consapevolezza dell’integrazione dei fattori e, quindi, delle necessità di coordinamento, cercando al tempo stesso di superare l’autismo localistico che a volte ne limita gli orizzonti, ma anche quel rigidismo burocratico che pensa che basti fare un decreto per ottenere l’attuazione.
Questa è dunque l’impostazione emersa dalla Conferenza, in un momento in cui era già aperta, presso le Commissioni Ambiente di Camera e Senato, l’indagine conoscitiva sulla legge quadro e sulle aree protette dalla quale sono uscite, come spesso accade quando si dibattono questioni che non si conoscono a fondo, molte proposte di legge di modifica relative ad aspetti per i quali sarebbero stati sufficienti semplici atti amministrativi.
Ma ciò che è ancora più interessante è che, mentre il Documento delle Regioni lasciava emergere un federalismo in alcuni casi piuttosto rigido sulle competenze, riaffermando pure la necessità di riequilibrare le divergenze fra Stato e Regioni, al tempo stesso citava APE come la via giusta per superare conflitti di competenza astratti e avviare invece iniziative concrete di collaborazione e di coordinamento.

Per questo, ritengo che APE possa partire come primo campo d’elaborazione dell’impostazione emersa dalla Conferenza, perché tiene conto e incrocia due culture che oggi sono molto presenti nel Paese: la cultura dell’attenzione alla tutela dell’ambiente e la cultura della critica nei confronti del centralismo, ma anche della consapevolezza della necessità di coordinare e d’integrare le politiche per costruire insieme. Sotto questo profilo, anche per espresso riconoscimento delle Regioni, APE può diventare il primo campo di sperimentazione di questo approccio.

Ma aldilà di questo, APE è l’espressione di un diffuso bisogno di comunicare l’Appennino. Effettivamente, con l’approvazione della legge quadro, è sensibilmente cresciuto il numero delle aree protette che interessano l’Appennino. Tanto per fare un esempio, 9 dei 18 nuovi parchi nazionali si trovano sull’Appennino e di questi solo due, il parco dell’Abruzzo e il parco della Calabria, sono antecedenti alla 394.
La 394 ha radicalmente mutato la geografia dell’Appennino e la presenza dell’attuale costellazione dei parchi e di aeree protette giustifica pienamente l’idea di un Appennino Parco d’Europa. Naturalmente, l’obiettivo non è certo quello di omogeneizzare le differenze di campanile, di culture e anche di dialetti che caratterizzano un territorio così vasto, quanto piuttosto di progettare uno spazio unico in grado di comunicare, con più forza,l’esistenza di una grande, nuova risorsa europea. Una risorsa che è un ponte fra il Mediterraneo e l’Europa e che si manifesta attraverso una biodiversità, tra le più ricche del nostro continente, che non è fatta di contesti isolati e selvaggi, ma che è frutto di un uso del territorio impostato sulle attività agricole e rurali, sui pascoli, sui prodotti tipici e, più in generale, su un patrimonio naturale e, al tempo stesso, storico-culturale, che tutti ci riconoscono e che consente un’offerta complessiva del territorio.

E’ dunque nell’ottica di questa offerta complessiva che natura e cultura diventano valori, oltreché risorse, di cui l’Appennino è estremamente ricco. Per questo, proprio per comunicare la presenza di questi valori, è necessario promuovere l’Appennino rispetto ad un immaginario, al tempo stesso nazionale ed internazionale, agli occhi del quale le montagne italiane si identificano solo con le Alpi. Tuttavia, sebbene le Regioni abbiano già un loro progetto, anche di comunicazione, il rischio, in mancanza di una massa critica, è quello di non riuscire a raggiungere, su vasta scala, i flussi turistici internazionali. APE deve appunto servire a questo, ad esaltare la diversità collocandola in uno scenario che la renda percepibile.

APE come progetto nazionale, dunque, ma anche come occasione interregionale, perché se è vero che la leva della partenership deve esaltare il ruolo degli imprenditori, delle associazioni ambientalistiche e delle associazioni di categoria, è altrettanto vero che poi il nucleo centrale e radiante di questa collaborazione sta nel rapporto tra Stato, nuove amministrazioni centrali, Regioni ed Enti locali, dove le Regioni si pongono in funzione mediana nella costruzione del progetto. Del resto, le competenze regionali sono progressivamente destinate a crescere, anche nell’ottica della legge quadro:la carta della natura, le linee fondamentali di assetto del territorio, che sono i grandi strumenti di pianificazione previsti dalla 394, presuppongono inevitabilmente l’accordo con le Regioni.

Ma la vera novità consiste nel fatto che si sia finalmente arrivati a ragionare di sviluppo sostenibile anche per le zone di montagna. Ciò è in realtà il risultato di una lenta evoluzione che ha profondamente mutato le coordinate dello sviluppo. Ancora pochi decenni fa, infatti, le direttrici dello sviluppo correvano lungo la fascia costiera, concentrandone le dinamiche lungo il litorale o attorno alle aree metropolitane. In questo contesto, le montagne non rappresentavano una risorsa,quanto piuttosto un ostacolo da superare, scavando valichi e trafori, per mettere in collegamento le due opposte direttrici che correvano parallele lungo la fascia costiera. Oggi, anche grazie alla normativa comunitaria, le coordinate dello sviluppo sono cambiate e, con esse, gli orientamenti della politica. Solo vent’anni fa, infatti, non sarebbe stato neppure pensabile che il Ministero dell’Ambiente, con il contributo dei fondi comunitari, potesse destinare più di 800 miliardi ai parchi nazionali. E non era pensabile perché non era ipotizzabile coniugare lo sviluppo agricolo con la conservazione dell’ambiente e, di conseguenza, le coordinate della politica agricola comunitaria,come di quella turistica, erano ben diverse. Ma con il mutare degli orientamenti comunitari è stato piuttosto facile mettere insieme le risorse per creare un benefico effetto moltiplicatore. E nel valutare i positivi risultati sin qui raggiunti, non si può non riconoscere agli Enti Parco il merito di essersi fatti essi stessi promotori, in molti casi, di patti territoriali.

Nel parlare di pianificazione è tuttavia opportuno ricordare che l’imminente ingresso di nuovi Paesi nell’Unione Europea, che ha già determinato l’esclusione dell’Abruzzo dall’Obiettivo 1, si tradurrà
anche nella contrazione dei finanziamenti a largo spettro di cui hanno finora beneficiato le zone dell’Obiettivo 5b, vale a dire quelle dell’Appennino del centro nord, mentre alle zone dell’Obiettivo 1, che sono poi quelle in ritardo di sviluppo, si sostituiranno i Paesi dell’est europeo. E’ dunque chiaro che in una vicenda di cui l’Italia potrebbe risentire più di altri Paesi del Mediterraneo, un progetto come APE consente di proporre l’idea di un fondo comunitario nuovo,centrato sull’asse turismo sostenibile, agricoltura di qualità, conservazione della natura, rendendo disponibili risorse alternative.

Resta tuttavia da sciogliere un ultimo nodo, dal quale scaturisce una contraddizione che il mondo politico e forse anche quello ambientalista, non sembrano aver assunto fino in fondo. In sostanza,
non si è ancora capito che un sistema di aree protette comporta tutto un mondo di attività che a loro volta hanno bisogno di nuove risorse umane e che, fortunatamente, esistono oggi le precondizioni culturali necessarie a fare in modo che la gente non abbandoni le aree protette interne ed anzi investa su di esse, in termini di lavoro e di capitale.
In altri termini, chi oggi svolge un’attività agricola o turistica in un’area interna non è più considerato come socialmente emarginato e quindi, almeno sotto il profilo del pregiudizio culturale, non esiste più alcun ostacolo. In queste zone, tuttavia, l’esodo è stato pesantissimo ed ha decimato le risorse umane disponibili, con prospettive future non certo migliori, dal momento che, secondo alcune statistiche, su cento imprenditori agricoli italiani, solo sei hanno un successore tra i 25 e 35 anni. Ma a risentire di questo progressivo spopolamento sarà soprattutto la biodiversità che è frutto delle attività dell’uomo, perché il successo delle aree protette non è legato solo alla varietà delle presenze florofaunistiche, ma anche all’offerta gastronomica, enogastronomica e turistica in generale.

Ed ecco che l’incoerenza di fondo riappare nello smantellamento di quei servizi territoriali che, al contrario, rappresentano una discriminante nella scelta che può portare ad abbandonare la propria terra. Il che, ovviamente, non può voler dire difendere i servizi territoriali in maniera incoerente ed assistenzialista, come tanto spesso è accaduto in passato.

di Fabio Renzi
Segreteria Nazionale di Legambiente
Responsabile Aree Protette

< Gli Articoli di Azienda Turismo