Viaggio nel viaggio

Il libro di Eric J. Leed

Esperienza diffusa, in un universo di persone e conoscenze sempre più in movimento, il viaggio attira la sensibilità di scrittori, narratori, romanzieri e studiosi di diverso tipo come mai prima d’ora. La domanda che più spesso ci si pone riguarda il come e il perché del viaggio, al di là e prima dei differenti dove.

La letteratura sull’argomento suggerisce uno spettro di significati che fanno del viaggio una sorgente di valenze simboliche e di riferimenti concreti, una chiave di lettura per le dinamiche più differenti come la ricerca della novità, della conoscenza, della felicità, della natura, dell’arte, della bellezza etc.

Tali dinamiche disegnano il viaggio nei suoi contorni, lo descrivono nei suoi confini; lo spiegano nei suoi significati e lo rendono strumento di esemplificazione di realtà e processi differenti. Per questi motivi, le manifestazioni estrinseche del viaggio acquistano una importanza imprescindibile in una analisi che voglia cogliere un profondità il fenomeno. Tuttavia questi aspetti non sono in grado da soli di afferrare l’essenza del viaggio. La complessità del fenomeno resta nascosta se non si coglie la strutturalità del viaggio. Per strutturalità intendiamo, al di là e prima dei differenti significati che il viaggio contiene in se stesso, il processo di oggettivazione.

L’ipotesi è che le differenti potenzialità del viaggio risultino spiegabili attraverso meccanismi di oggettivazione e astrazione del viaggiatore rispetto alla realtà ad esso circostante.
La strutturalità è il denominatore comune di un’esperienza che altrimenti, per la sua ricchezza di significati, diventa fonte di indeterminatezza.
Se si assume come punto di avvio l’ambiguità che rende il viaggio un costrutto utile per la spiegazione di fenomeni eterogenei, si vedrà che, paradossalmente e contraddicendo alla propria indeterminatezza, tale ambiguità introduce concetti di familiarità, comparazione e relazionalità di cui i processi di oggettivazione del viaggio si alimentano.
L’immagine del viaggio come fenomeno complesso verrà confermata alla luce di alcune costanti: determinazione e processi, che sembrano accompagnarlo sempre, definendone appunto la struttura al di là delle diversità dei luoghi e dei tempi in cui concretamente, ogni viaggio, si esprime. Entrare dentro il viaggio può dunque essere un modo per muoversi con più disinvoltura nella trama di concetti e idee che lo avvolgono.

In questo processo conoscitivo ci può soccorrere E. J. Leed, con La mente del viaggiatore. – dall’Odissea al turismo globale (il Mulino, Bologna, 1992; pagg. 386, * 21, 80, Ed. or.: The Mind of the Traveler, From Gilgamesh to Global Tourism, Basic Book, 1991).

L’ambiguità

Gioco continuo tra oggettività da un lato e rappresentazione sociale dall’altro, il viaggio coniuga la fissità degli spazi allo scorrere del tempo e questi all’interpretazione soggettiva del viaggiatore.

Non importa se il piano in cui ci si muove sia quello teorico e analitico, cioè dello studioso del viaggio, oppure pratico de legato all’agire concreto dell’attore che lo compie: in entrambi i casi, il viaggio si presenta come una realtà ricca di aspetti suscettibili delle più differenti interpretazioni e, per questo, di difficile sistematizzazione. L’ambiguità concettuale e contenutistica è dunque la prima qualità che appare quando si pensa al viaggio e, probabilmente, l’impressione più forte per ogni viaggiatore.
L’ipotesi che qui si intende sostenere, è che il viaggio è un concetto polisemico e quindi foriero di ambiguità, perché viaggiare è vivere la diversità attraverso la mobilità, ma che è possibile andare oltre la plasticità del fenomeno e rintracciarne la struttura.

Nel suo libro, Eric J. Leed affronta il tema del viaggio cercando di misurarne proprio l’intrinseca complessità. Terreno di metafore, giardino di simboli o rito di iniziazione, l’autore considera il viaggio come una fonte di significazione tanto generale da essere praticamente universale. Il concetto di familiarità rende il viaggio un agente e un modello di trasformazione, un’esperienza di mutamento continuo familiare a tutti gli esseri umani dal momento in cui acquisiscono la locomozione durante la prima infanzia (p.14).
L’universalità e la polivalenza del viaggio risiederebbero, dunque, nel fatto che esso asseconda la naturale inclinazione ad utilizzare ciò che è familiare per cogliere ciò che sfugge e non si riconosce (Barth,1975).

Tutto ciò rende il viaggio, oggi, quello che è sempre stato: una fonte inesauribile di risorse attraverso le quali operare confronti e valutare le situazioni concrete nelle quali ci imbattiamo, per caso o per necessità.
E’ nel concetto di familiarità, che risiede la straordinaria ricchezza del viaggio. La familiarità del viaggio ci obbliga a rispettarne l’universalità e ci permette di affrontare il denominatore comune della civiltà umana e di gran parte delle sue vicissitudini ma, e proprio per questo, essa diviene, nell’esperienza di chi lo compie, prospettiva esterna e comparativa. In questo senso il viaggio è paradigma d’oggettività. Paradossalmente, nella sua familiarità risiede la possibilità del viaggio di essere di essere fonte di astrazione. Il confronto continuo che soltanto attraverso di esso può essere compiuto attraversando il consueto dall’esterno, innalza il viaggio al livello di fonte di dimostrazione.

Non è necessario specificare che tale dimostrazione possa essere una comparazione su ciò che siamo, su quella che sono gli altri, su come percepiamo l’ambiente intorno a noi i sulle diverse forme di scambio che possono realizzarsi in esso. Una volta colta l’essenza dell’oggettività del viaggiare ogni altro sforzo, per quanto importante, segue spontaneamente, e il processo di attribuzione dei significati alle singole esperienze costitutive del viaggio, siano esse di svago, esplorazione, conoscenza, non apparirà così difficile.

E’ per questo motivo che lo scritto di Leed merita attenzione. Troppo volte e con eccessiva facilità ci si lascia intrappolare dall’inafferrabilità del viaggio e dalla indeterminatezza del fenomeno. Tutto questo c’è, ma c’è anche dell’altro. Il viaggio sfugge perché è movimento, fluire continuo di esperienze oggettive al di là delle percezioni soggettive. Ma proprio in questo risiede la sua universalità paradigmatica e la capacità di ricomprendere al suon interno, spiegandole, le più diverse esperienze di senso o condizioni di significato. Quella mobilità che coreografa la danza degli oggetti, gioco con l’ordine fisso delle cose e fa andare il mondo in rapida evanescenza, è lo stesso movimento che distanzia il viaggiatore dal mondo che sta attraversando (p.91), Sia che lo si studi e lo si renda un oggetto strano di difficile decifrazione, sia che lo si compia, l’essenza del viaggio risiede proprio nella capacità di offrire un punto di vista oggettivo sulle cose….Con la partenza del viaggiatore è reificato e diviene una cosa che permane come individualità autonoma al di fuori di quei rapporti che la identificano…

Il mondo diviene uno schieramento di oggetti, manufatti ed esemplari il cui significato è misterioso per l’estraneo e deve essere decodificato sulla base delle apparenze. Allontanandosi, l’individuo può arrivare a vedere con distacco i modelli culturali nei quali è nato, che una volta fornivano le lenti e i significati con cui guardare il mondo, come un oggetto, una cosa, un fenomeno unificato e descrivibile (p.64).

Qui l’essenza del viaggio, qui il bersaglio delle considerazioni sull’ambiguità del concetto, qui la geniale intuizione che l’autore ha saputo cogliere.
La domanda più ricorrente del viaggiatore o di chi si interroga sul viaggio è se esso sia passione pere le cose strane e sconosciute, anelito del nuovo e dell’ignoto o conferma del conosciuto, ricerca del già dato che si intende avvalorare. Si può pensare che si tratti del quesito meno sindacabile di tutti perché il più soggettivo e contingente. Ma se si segue il punto di vista che si propone ci si accorge che questa domanda è un problema che non esiste.
Certo, la percezione soggettiva di un viaggio può essere di novità, così come l’oggettività dei luoghi può presentarsi vestita di tinte assolutamente insolite rispetto al consueto, e per questo assolutamente originali in se stesse. Allo stesso modo, è fuori di dubbio che ogni oggetto, persona, luogo in cui ci si imbatte nel corso di un viaggio sarà in grado di evocare, che lo voglia o no, parti del viaggiatore del suo modo di essere, di ricordare dei vissuti, di confermare ciò che è già noto e che finisce per ritrovare. Ma se si guardano più da vicino i concetti di novità e di conferma, che si presentano come attributi del viaggio, non è la loro specificità che colpisce quanto la loro relazionalità intrinseca. Per questo si può dire che il viaggio è comparazione e relativizzazione: perché a prescindere dai contenuti di tradizionalità o di innovazione e dalla percezione che si possono avere di questi contenuti, ciò che fa la differenza è sempre il confronto.

In questo senso è vero che lo sguardo del viaggiatore è sempre preorientato dalle attese e che il sistema delle aspettative condiziona la lettura della realtà attraverso il gioco delle rappresentazioni.
Così come è altrettanto certo che, nei viaggi, si finisce per vedere soltanto ciò che già ci si aspettava e non la realtà in sé, e che le difficoltà a leggere la realtà nella sua oggettività saranno tanto più grandi quanto minore è la distanza, simbolica e culturale, dalla realtà oggetto di osservazione. Tuttavia, fermo restando tali precisazioni, il viaggio è sempre un’esperienza di paragone e di comparazione e il confronto è sempre la risultante di un processo di generalità e di astrazione. Quale che sia il vissuto soggettivo di chi viaggia o il dato oggettivo, il luogo, lo spazio che si ha di fronte durante il percorso, il viaggio è sempre un rapporto costante e oggettivato. Il viaggiatore esperto che H. Jomes (1970) chiamava il cosmopolita è formato dall’abitudine di confrontare, cercare punti di differenza e di somiglianza, vantaggi presenti e assenti, quale condizione inevitabile del viaggiatore.

D’altra parte, a questo si riferiva Simmel (1976) quando parlava dell’obiettività dell’estraneo. Come nota lo stesso Leed, l’obiettività dell’estraneo è la capacità di astrarre i rapporti dai loro termini locali oltre i quali gli indigeni non possono vedere. Si tratta, ci dice l’autore, di una qualità generata dal viaggio.

Il viaggio, e il movimento che lo definisce, appaiono come uno strumento percettivo che astrae e generalizza la forma e i rapporti tra le cose. Ancora una volta la sua ambiguità deve essere ricondotta al flusso che esprime il movimento, dunque alla strutturalità del viaggio e questa ad un ordinamento progressivo della realtà, vale a dire a un metodo che organizza l’afflusso di dati in una sequenza, orientandoli e dando ad essi una sistemazione.

Il riconoscimento di sé

Ma il viaggio è anche distacco da un contesto di riconoscimenti e rispecchiamenti sociali che lo definiscono. Viaggiare è provare un nuovo senso di se stessi. Nel viaggio il sistema tradizionale di riconoscimenti viene spostato attraverso il gioco continuo delle nuove identificazioni. In esso l’individuo indossa maschere, viene semplificato o irrigidito a secondo dei casi e delle forme del mutuo riflettersi e riconoscersi. L’esistenza sociale si modifica e ciò retroagisce sull’identità che, combinazione continua di identificazioni differenti, è sempre specifico riflesso dell’io nell’alterità.
Spesso si viaggia proprio per colmare il bisogno di esaltazione di noi stessi, per soddisfare la passione di movimento da una identità ad un’altra. Così, il viaggio è chiaramente una distrazione che facilita il mutamento di volta e di personaggio.
Il personaggio sociale, la maschera, il riconoscimento legato ad una identità sociale particolare, possono anche essere fissati da patti reciproci e mantenersi in forma più o meno cristallizzata. Tuttavia, anche in questi casi più estremi, i mutamenti di identità che si sperimentano attraverso il viaggio sono pur sempre un prodotto di apparenze e di una loro manipolazione, cioè forme che si stanziano a partire dalla differenza facendo emergere ciò che vi è di comune nella superficialità delle cose.

L’essere sociale affonda le proprie radici nelle apparenze e nelle rappresentazioni, nella comunicazione e nella manipolazione di simboli e di immagini identitarie. Nel viaggio, la dissimulazione e l’appartenenza diventano un’occasione per guardarsi dall’esterno e, attraverso il gioco di riconoscimento, il viaggio crea rapporti che si oggettivizzano nelle maschere del viaggiatore.

Partenza, transito e arrivo

Intuizioni interessanti ci vengono suggerite dalla distinzione posta dall’autore tra i tre momenti costitutivi del viaggio: la partenza, il transito e l’arrivo.

L’identità del viaggiatore viene ridefinita in ognuno dei tre momenti. La possiamo immaginare come un’identità poetica, come la definisce Boudlaire, perché incapace di trovare appagamento dinanzi agli orizzonti domestici, benché consapevole dei limiti di ogni altrove. O come un’identità in grado di cogliere la vera sfida dell’esistenza, secondo Neitzsche riposta nella capacità di usare i fatti per migliorare la vita.
Possiamo immaginare il viaggiatore un poeta che si nutre di fantasia spingendosi, come pellegrino, alla ricerca di spazi alternativi, meno compromessi, oppure semplicemente pensando come un individuo “mosso” da necessità.
In ogni caso, con il viaggio e attraverso i suoi tre momenti fondamentali, ci troviamo di fronte a sperimentazioni continue di noi stessi, delle nostre aspettative, di ciò che i nostri occhi hanno già visto ma intendono guardare, notare davvero. Come scrive Leed , viaggiare non è un mezzo per fare qualcosa quanto un modo per essere qualcosa.

Cosa accade nella partenza, che è sempre una rottura, un distacco dell’individuo dalle sue matrici sociali, da quei legami che lo identificano e ai quali assegna valore. Nella partenza prende forma una sorta di invisibilità crescente. Un appannamento delle individuazioni sociali che fanno dire all’autore che non esiste identità senza l’altro (p.51).

Per quanto qualitativamente diverso dai momenti della partenza e dell’arrivo, anche il transito ridefinisce l’identità del viaggiatore, producendo trasformazioni del carattere nella misura in cui esso è scelto ed è scelto per se stesso, non per scopi o mete estrinseche (p.79).
Nel transito il viaggiatore ridefinisce se stesso perché può ampliare la propria esperienza e cogliere quella totalità che solo una visione esterna e in movimento catturano. Gli stessi conflitti provocati dai riconoscimenti di altri possono essere risolti, diventando il viaggiatore, per una stagione, più puramente, un osservatore concentrato del mondo che passa (p.90)

Infine, l’arrivo. Qualunque sia il livello di ingresso cercato dal viaggiatore, l’arrivo è sempre un processo di identificazione: il viaggiatore identifica il luogo e il luogo identifica la specie di viaggiatore che si trova ai suoi cancelli. L’arrivo è anche un processo di incorporazioni che sviluppa un senso di coesione tra la persona e il luogo (pag.111). Attraverso il gioco continuo tra sovrapposizioni e confronti di modelli culturali, di immagini e di cose osservate, l’arrivo ridefinisce le identità individuali. A molti viaggiatori ha fornito l’occasione per diventare qualcun altro (pag.136), di indossare volti nuovi; di allontanare o conoscere,, come ci suggerisce Goffman, l’individuo del retroscena che è dietro il personaggio della ribalta.

Come si evince dall’analisi di Leed, il viaggio può essere ricostruito nei suoi passaggi storici e nelle trasformazioni che lo hanno portato dall’antichità al medioevo e da questo ai nostri giorni. Coglierne gli effetti è importante perché allarga la percezione della sua potenzialità oltre che delle dinamiche che circondano l’individuo. Metafora della vita o accadimento reale, il viaggio contiene le chiavi di lettura più disparate dell’esistenza e dei suoi momenti più anelati: dalla ricerca della felicità al gioco tra immagine e realtà: dallo spingersi oltre l’orizzonte domestico in cerca di poesia al rifugiarsi lontano in cerca di sicurezze; dalla scoperta del nuovo all’emozione per il certo; dallo spogliarsi di una identità al rivestirsi di nuove e più combinate forme di identificazione. Tutto questo realizza il viaggio; tutto questo fa del viaggio la terra da esplorare quanto più risulti battuta.

Ma il viaggio è anche qualcosa di più e di diverso. Qualcosa che va oltre questa sintesi di significati, come l’autore sembra suggerire, e che identificabile nella strutturalità del viaggio: strutturalità paradossalmente spiegabile attraverso l’ambiguità e la vischiosità di un concetto che non si lascia intrappolare in facili categorie conoscitive, realizza l’ossatura di ogni possibile specificazione che sul tema si voglia dare, di ogni attributo che al viaggio è possibile riconoscere.
Ciò è possibile attraverso i passaggi che dall’ambiguità portano all’oggettività e all’astrazione del viaggio, passando attraverso i concetti di familiarità, comparazione e relazionalità.

Se le domande che tutti ci poniamo di fronte ad un viaggio, sia immaginato ma non ancora realizzato, reale o metaforico, riguardano la sua capacità di combinare gli opposti; di creare il nuovo e il positivo dal vecchio e dal negativo; se derivano dalle possibilità di far nascere l’assimoro forse più grande di ogni altro, che è quello dell’esistenza che ritrova nel viaggio la sua possibilità di destrutturazione e ristrutturazione continua, allora è in riferimento alla struttura del viaggio e ai significati di cui abbiamo tentato una ricostruzione, non alle sue estrinsecazioni più o meno contingenti, che varrebbe la pena tentare nuove riflessioni.

di Roberta Iannone

< Gli Articoli di Azienda Turismo