La protezione delle aeree marine

Volendo chiarire la visione con cui, a livello centrale, viene affrontato il tema delle aree marine protette, della loro fruizione sostenibile nonché dello sviluppo e delle risorse, è forse inutile ricordare che cosa rappresenta il Mediterraneo per l’Italia. La sua centralità, come la sua condizione di bacino a rischio, sono tematiche solo apparentemente ininfluenti, perché in realtà si collegano direttamente ai temi della gestione delle risorse costiere e della fruizione di questo bene naturale che è appunto il mare.

A questo proposito, è opportuno fare alcune riflessioni, di ordine sia generale che particolare. Le prime riguardano la tutela del mare e delle coste. La parola tutela – implicando un discorso di limite, di livello – assume spesso una connotazione negativa. Tuttavia, con una riflessione più ampia, la tutela diventa fruizione razionale protratta nel tempo, per combinarsi con istanze di sviluppo rispettose non solo del principio del profitto immediato, ma dell’utile a medio e lungo termine per l’intera collettività.

Un Paese come il nostro ha certamente tutto l’interesse che i suoi 8.000 km. Di coste siano fruiti, ma non degradati o danneggiati permanentemente. E allora, se si tiene conto di un fatto naturale statisticamente provato su scala mondiale, come quello del movimento generale della popolazione verso le aree costiere, è inutile dire quanto sia importante per l’Italia aprire per tempo una riflessione sulla gestione razionale di questo bene, che è una vera risorsa. Un tema che il legislatore italiano, come spesso accade, ha intuito forse in anticipo rispetto ad altri paesi, dandosi una legislazione che, sulla carta, è sicuramente all’avanguardia. Senonchè, in fase di attuazione o, per usare un brutto termine mutuato dalla lingua inglese, nella fase di implementazione della normativa, sono emersi due problemi estremamente importanti: uno di ordine generale ed uno di ordine puntuale, che è poi quello che, per calarsi nel reale, richiede progetti specifici e programmi molto precisi rispetto agli obiettivi da conseguire.

Nella carta sulla difesa del mare, adottata dal legislatore nel dicembre 1982 (legge n. 979 del 31.12.1982), che di per sé era già un concetto attivo, in quanto implicante un’azione, un intervento, un indirizzo, e non solo un divieto – veniva attribuito il più ampio significato di governo del mare, con un bel disegno che però, sul piano della concretezza, ha poi stentato a trovare i mezzi concreti per camminare. Infatti, nonostante le risorse necessarie o quel disegno fossero indubbiamente rilevanti, non si è riusciti ad andare oltre la considerazione che il mare un po’ più pulito o un po’ più sporco non fa poi una grande differenza rispetto ai conti pubblici e alle più generali esigenze dello Stato. Si può senz’altro dire che l’impulso volto a dare attuazione ad una piattaforma generale di governo del mare si è andato progressivamente attenuando, fino ad arrivare alla soppressione del Ministero della Marina Mercantile e al successivo smembramento delle competenze, salvo ripartire da un discorso puntuale, che è poi quello delle aree protette. Più di recente, il Parlamento ha riaperto il discorso generale.

A questo proposito, pur non volendo affermare che ciò sia avvenuto per la pressione esercitata in occasione della Prima Conferenza Nazionale sui Parchi, grazie anche all’intervento del Dott. Grimaldi, a suo tempo piuttosto duro nel ricordare, anche al Ministro dell’Ambiente, che pensare di attuare una politica delle aree naturali protette sul mare, senza un concomitante indirizzo d’ordine generale, è un impresa molto difficile; non si può, infatti, pensare di proteggere un’area limitata lasciando tutto il resto senza controllo.

In effetti, per poter essere fruito a livello locale, l’elemento mare ha bisogno di un impegno generale. Ed è per questo che, come la legge ha anche indicato,occorre individuare a livello locale, gli aspetti morfologici, geologici e biologici che caratterizzano gli ambienti marini rendendoli, sul piano naturalistico, degni di essere preservati al di là del semplice valore paesaggistico.

Ed ecco che l’esigenza di preservare gli ambienti marini si ricollega subito al discorso dei vincoli. Ma, a ben guardare, si tratta poi di vincoli che si aprono a flussi alternativi. Il primo scontro è stato in effetti, uno scontro con un mondo più direttamente legato al mare,quello della pesca. Ma mentre la pesca industriale professionale ha subito visto la propria attività messa in qualche modo in pericolo, ed ha reagito, la piccola pesca artigianale, rientrando all’interno di un quadro già protetto, diventava quasi un’esclusiva dei pescatori residenti nell’area marina protetta, con un indubitabile vantaggio.

Tuttavia, questa reazione emotiva ha sostanzialmente ostacolato la comprensione del termine “Riserva Marina” che, nella formula legislativa del 1982, come in quella della legge quadro sulle aeree protette (1991), conservava sì, anche, il senso di limite, di vincolo, ma non di perdita delle occupazioni alternative. Infatti, oltre a lasciare, come già ricordato, la possibilità, per esempio, di pescare ai residenti, ben altre occupazioni alternative si offrono nell’area marina protetta: dall’attività di guida ecologica, all’attività di pesca turismo, alle attività legate alle scuole di immersione, ecc. Diventano così, molte anche le opportunità di destagionalizzare il flusso turistico, cioè di fruire di un’area naturale protetta non solo in un breve periodo dell’anno ma lungo un più ampio arco temporale.

Nella storia del nostro Paese, l’influenza esercitata dal mare si manifesta con forza sul piano culturale, sociale, fisico ed economico. Se partiamo dalla storia di Roma per giungere, attraverso la storia delle Repubbliche Marinare, sino ai giorni nostri, e se pensiamo che il 55% delle esportazioni, e forse oltre il 75% delle importazioni, si muovono via mare possiamo realmente comprendere il ruolo svolto dal mare nello economico del nostro Paese. Tuttavia, occorre anche tenere conto dell’influenza esercitata, in senso opposto, dalla terraferma. Sotto questo profilo, esiste infatti una pressione della terraferma sul mare, che dipende dall’uso che direttamente o indirettamente si fa del territorio e che viene in qualche modo risentito nella fascia costiera. Ed è noto, per averlo vissuto, quale insulto la terra può rivolgere al mare, soprattutto nella fascia più sensibile, che è poi quella costiera, proprio là dove la batimetrica più bassa favorisce il processo di fotosintesi da cui si sviluppa la vita acquatica.

Allora gli apporti tra terra – o come si usa dire nel comune linguaggio internazionale – “the land based sources” divengono estremamente importanti per il controllo dello stato delle acque marine, a cominciare dalla gestione dei rifiuti. Tutto questo dà in sostanza ragione di due indirizzi. Il primo, legislativamente tracciato, ha richiesto anni prima di ottenere il coinvolgimento di un mondo, quello della pesca, che pure, traendo il suo reddito dal mare, dovrebbe essere il logico tutore per poterne ricavare il massimo. Il che continuerà ad essere oggetto di dibattito, almeno fino a quando non si riuscirà a comprendere che è ormai indispensabile abbandonare la logica alla “Jack London” che vede il pescatore quale predatore mentre deve anche lui contribuire ad una più razionale utilizzazione dell’elemento mare, divenendone geloso custode.

Coinvolgimento delle popolazioni locali nella gestione del territorio

Fu appunto questo il primo sforzo che si cercò di fare, già nello stesso anno in cui venne emanata la legge sulla difesa del mare, introducendo la legge n. 41/82 sulla razionalizzazione delle attività di pesca. Quanto al secondo indirizzo,quello del coinvolgimento delle popolazioni locali nella gestione del territorio, il legislatore non è stato altrettanto chiaro.

Anche la legge n.394 del 1991 ha praticamente imposto un momento di pausa, diremmo quasi di freno. Personalmente, sono sempre stato convinto che, se si vuole fare una politica sana e aprire ad un reale sviluppo delle aeree in senso costruttivo e di interesse generale, occorre che i primi a rendersene conto siano i padroni di casa, vale a dire le popolazioni residenti. E’ nei loro confronti, quindi, che bisogna fare lo sforzo più grande per far comprendere che “area marina protetta” non significa affatto impedimento allo sviluppo, ma implica invece uno sviluppo che, nel tempo, conservi le bellezze naturali della zona e premi quelli che in essa risiedono. Perché si fa presto a bruciare le risorse, lasciando poi il deserto alle proprie spalle.

Il concetto di area marina protetta

Questo è un concetto al tempo stesso formativo ed informativo, sul quale si è ripetutamente insistito, convincendoci della necessità di un confronto con le popolazioni locali e, soprattutto, a livello locale, un concetto apparentemente naturale e semplice come quello che associa la tutela di un bene alla tutela della propria casa. Ma a questo punto si pensa subito al fatto che, a differenza delle risorse naturali, la casa ci appartiene davvero.

Qui subentra un secondo fatto importante, perché se nella norma contenuta nella legge n.979 del 1982 sulla difesa del mare si afferma che “il mare è un bene di valore nazionale”, ecco che si viene a privilegiare lo sviluppo di una comunità locale cosciente e consapevole, nella sua totalità, a cui è
stato affidato un bene che tuttavia è e resta un valore nazionale.

Si tratta, in sostanza, di impostare un discorso di maturità e di indirizzo politico. A tale proposito, può essere utile confrontare il primo esperimento di area marina protetta effettuato a Ustica con l’altro, quello di Trieste (Miramare) condotto successivamente ,per sottolineare come, in questo secondo caso, si sia trattato di un discorso di tipo più locale che culturale. In altri termini, volendo sviluppare questo concetto di natura didattico-educativa, l’esperimento condotto a Trieste è stato vissuto come un intervento marginale, rispetto alla realtà cittadina, e non è riuscito a coinvolgere, come è invece accaduto a Ustica, l’intera comunità. Al contrario, lo stesso coinvolgimento manifestato dalla comunità usticese si è registrato a Ventotene, dove il Referendum sull’istituzione dell’area marina protetta, voluto dal Sindaco, depone ad ulteriore sostegno di quanti, come me, ritengono che si debba prima di tutto far maturare la popolazione dei residenti in questa direzione. A mio avviso, infatti, quello conta è l’attuazione effettiva della politica di tutela ambientale marina.

E’ per questo che, nella premessa, ho ritenuto opportuno sottolineare le responsabilità e le carenze di una politica del mare disegnata ma forse a suon tempo non realizzata.

Questo è il momento di lavorare con serietà e costanza all’attuazione di un progetto di tutela e di conservazione in cui il contributo dei residenti assume un ruolo determinante. Il discorso della tutela e della conservazione, infatti, non può fare a meno di coinvolgere la popolazione locale nella direzione di uno sviluppo sostenibile del territorio in cui entra il turismo differenziato, che si a al tempo stesso scientifico, didattico, educativo e che si rivolga ai giovani come agli anziani,in una gamma così ampia da consentire l’uscita da quella visione di turismo di massa che rappresenta poi l’ostacolo maggiore rispetto alla possibilità di un’effettiva gestione razionale del territorio.

A questa riflessione conclusiva,si accompagna tuttavia l’auspicio di avere comunque contribuito a chiarire cosa debba intendersi oggi per area marina protetta in termini di una fruibilità che non comporti degrado o, peggio ancora, danni permanenti al territorio nazionale di cui siamo comunque responsabili.

di Matteo Baradà
Direttore Generale Ispettorato Centrale per la Difesa del Mare Mediterraneo e dell’Ambiente

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