Il valore economico dell’offerta culturale

La gestione dei beni culturali tra pubblico e privato

Turismo e beni culturali hanno sempre avuto un’attenzione residuale da parte dei decisori politici e dell’opinione pubblica: i primi ne hanno sempre magnificato le potenzialità preferendo, spesso, perseguire scelte di tipo industrialista; l’opinione pubblica, invece, ne ha sottovalutato il peso economico arrivando talvolta a dequalificare dal punto di vista sociale i loro addetti (a volte, invece, chiamati a svolgere una vera e propria funzione di mediatori culturali).
Sembra però che per i professionisti della tutela, per i detrattori del turismo – inteso unicamente come fenomeno di consumo di massa – tiri una brutta aria: ai musei romani viene chiesto di mantenere un ruolo conservativo, didattico-divulgativo e di affiancarvi anche quello economico.

Nel Documento di Programmazione Economico-Finanziario per gli anni 2002-2006, il Ministero per i beni e le attività culturali ha immaginato che il patrimonio storico artistico debba contribuire, anche al conseguimento dell’obiettivo globale di crescita strutturale dell’economia italiana, oltre a mantenere la funzione di testimonianza del valore di una comunità.
Intanto facciamo un passo indietro. Nel 1992, l’Istat censì 3.554 musei in Italia di cui 968 (pari al 27,2%) chiusi al pubblico e 1.044 aperti a richiesta (29,4%). Nello stesso anno gli incassi derivanti dai biglietti di ingresso (tasse e di fatto continuano a rimanere tali, impedendone l’integrazione,ad esempio,in pacchetti turistici) ammontavano a 150 miliardi di vecchie lire.
Con l’adozione della legge Ronchey nel 1993, che ha consentito l’apporto dei privati nella gestione degli istituti – anche se riferibili a precisi ambiti operativi e organizzativi (servizi di accoglienza e ristoro), ma soprattutto con un vasto movimento di opinione che ha fatto del museo un luogo di consumo di massa e un oggetto di diffusione/attenzione mediatica – è aumentata la sensibilità nei confronti dell’offerta culturale come opportunità di impiego del tempo non lavorativo, che è notoriamente in aumento in tutte le società post-industriali.
In 127 realtà sono stati aperti servizi di accoglienza (88 bookshop, 22 caffetterie, 17 servizi bibliotecari e archivistici) che hanno dato lavoro a 900 addetti, determinando nel 2001 un incasso lordo di 57 miliardi e royalties per lo Stato per 9 miliardi. Nel frattempo gli introiti derivanti dai biglietti d’ingresso, nonostante l’aumento dell’offerta, passano da 331 a 389 istituti, sono scesi a meno di 140 miliardi in virtù delle riduzioni (50%) di cui fruiscono nei musei statali, a partire dal 1999, i giovani di età compresa tra i 18 e i 25 anni (circa 1 milione).
Gli introiti complessivi nel 2001 derivanti dall’insieme delle attività previste dalla Legge Ronchey (riproduzioni immagini, noleggio fotocolor, diritti di utilizzo, riprese cinematografiche e televisive, uso occasionale degli spazi per conferenze, convegni, concerti, spettacoli e ricevimenti) hanno raggiunto quasi i 20 miliardi di lire. Pur riconoscendo il boom in termini percentuali (nel 1995 gli introiti furono di 3,3 miliardi) la dimensione assoluta del fatturato è modesta e non rappresenta nessuna svolta nella gestione finanziaria delle istituzioni culturali.

A titolo di curiosità, nel Lazio i visitatori/clienti che si sono avvalsi nel 2001 dei servizi aggiuntivi sono stati 2 milioni, gli incassi lordi pari a 17 miliardi e le royalties per lo Stato 2,5 miliardi.
Si sarebbe, pertanto, tentati di concludere “provocatoriamente” che anche in questo settore si sia imposto il modello capitalistico della grande impresa italiana: “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”; nel nostro caso gli ingenti costi di esercizio (compresi comunque in un misero 0,47% del bilancio dello Stato, che è quanto viene destinato al Ministero per le spese di competenza).
Va tuttavia considerato il ruolo che i beni artistici e culturali svolgono come attrattori di turismo nell’economia italiana: il 29% degli arrivi (oltre 20 milioni di persone) sono stati registrati negli esercizi ricettivi delle città d’arte (a fronte di 16,7 milioni che preferiscono il mare mentre sono 6,7 milioni gli amanti della montagna) e anche se in termini di permanenza il periodo di soggiorno risulta essere più breve rispetto ad altri tipi di turismi, la tipologia di turisti si caratterizza per una maggiore capacità di spesa.

Stimato nel 6% l’incidenza del turismo sul PIL e nel 9% la forza lavoro occupata, il valore aggiunto attivato direttamente dai consumi turistici in Italia ha superato (dati 1998) i 69.000 miliardi di lire di cui il 38% generato dal turismo straniero e il 62% da quello domestico. Se si sommano gli effetti indiretti, i livelli attivati dalla domanda turistica salgano a 113.000 miliardi (39,5% dipendenti dalla domanda estera, 60,5% da quella interna) con un incremento della capacità di spesa da parte dei turisti stranieri per acquisti da settori produttivi con forti legami intersettoriali.
Inoltre, non si può perdere di vista il fatto che oltre la quantità, è la diffusione nel territorio nazionale del nostro patrimonio storico-artistico che rende meno evidente la tradizionale barriera tra luoghi con possibilità e vocazioni turistiche e quelli destinati alla produzione e allo scambio.
Per quanto riguarda l’area romana, nonostante essa già detenga il 25% di quota di turisti per le città d’arte (Venezia ha il 14%, Firenze il 13% e Milano il 7%) evidenti sono le possibilità di espansione dei flussi turistici, a maggior ragione se incentivati da standard più adeguati dei servizi offerti e da un corretto prezzo dei servizi stessi; infatti, le presenze di turisti della nostra area sono il 14,6 per mille rispetto agli abitanti, contro il 45 per mille di Firenze e di quasi 100 per mille di Venezia. Pensate che un’area come quella di Milano, che non può certo definirsi a vocazione turistica, ha una densità di visitatori dell’11,3 per mille.
Roma può contare su 101 musei, 98 teatri, 432 chiese (4 grandi basiliche, 43 chiese medievali, 45 rinascimentali, 46 barocche, 52 sette-ottocentesche), 29 biblioteche, 6 archivi, 46 tra ville e giardini oltre ad una infinità di palazzi e dimore storiche.

Torniamo, allora, a capire come il Governo, ma direi i Governi degli anni ’90, hanno pensato di creare le condizioni per promuovere questa nuova filiera produttiva, partendo però dal presupposto che le regole sono importanti ma ancor di più lo è il governo, scusate il gioco di parole, del fenomeno.
L’art. 33 della Legge finanziaria 2002 ha introdotto, attraverso una radicale innovazione di carattere generale, la possibilità di assegnare ai privati, secondo criteri, modalità e garanzie predefinite, l’intera gestione dell’offerta al pubblico dei beni culturali partendo dal presupposto che la valenza sociale del bene non è inconciliabile con l’organizzazione imprenditoriale del soggetto gestore che, anzi, consente di esaltare le potenzialità e le possibilità di sviluppo del patrimonio artistico.
Per dovere di cronaca va detto che analogo provvedimento, sotto forma di Accordo di Programma, venne sottoscritto nel 1995, Governo Dini, dall’allora Ministro di settore Paolucci e dai tre sottosegretari alla Presidenza del Consiglio Negri, D’Addio e Scalzini.
Dunque, non un processo di privatizzazione di beni culturali ma una sinergia tra il pubblico e il privato a tutto vantaggio della qualità dell’offerta e delle possibilità di fruizione da parte del pubblico.

Al Ministero resta il compito di controllo e vigilanza, da esercitarsi evidentemente con maggiore efficienza ed efficacia, sui tre grandi sistemi in cui si articolano le misure proposte per le attività culturali:

• il primo, che include le attività indispensabili per la tutela e la salvaguardia del bene ai fini di porre lo stesso al sicuro da manomissioni o distruzioni;
• il secondo, che comprende le attività necessarie alla ordinaria gestione del bene, ovvero le funzioni da attivare per la sua conservazione e manutenzione;
• il terzo, che riguarda le attività che occorre espletare per produrre i servizi necessari per assicurare, migliorare e accrescere la fruibilità del bene in senso sia culturale che fisico. Insomma, promozione e valorizzazione.

E’ su questo terzo sistema che è previsto l’intervento dei privati con l’obiettivo di migliorare i servizi e incrementare la ricchezza del Paese, da una parte, attraverso il potenziamento delle attività culturali e, dall’altra, con occasioni di sviluppo di attività produttive sul territorio, di occupazione e formazione del capitale umano.
Da un punto di vista pratico ciò significa giungere all’articolazione del territorio in bacini di utenza e sviluppo della cultura, cioè, di luoghi privilegiati di insediamento di attività culturali tali da consentire lo sviluppo attraverso un sistema integrato di tutte le risorse in esso presenti in termini di cultura, turismo e infrastrutture.
Viene pertanto introdotto il concetto di gestione globale del servizio che potrebbe, in effetti, consentire una delega pressoché illimitata in materia di affidamento dei luoghi d’arte e del patrimonio culturale escludendo, però, sia ogni ipotesi di alienazione (rigorosamente disciplinato dal DPR n. 283 del 2000), sia qualsivoglia ridimensionamento della funzione di tutela, principio fondamentale (art.9) della vigente Costituzione e dunque norma sovraordinata.
Questa capacità di progettazione di iniziative di rilancio e sviluppo del territorio in grado di determinare un reale impatto sullo sviluppo economico territoriale, dovrebbe essere affidata ad una S.p.A. cui sarà demandata la corretta valutazione sia della convenienza finanziaria per l’amministrazione, sia degli standard di servizio resi.

Qualche polemica ha determinato il più recente varo della legge 112 del 2002 con la quale si è provveduto al conferimento, attraverso decreto, delle proprietà del demanio alla neonata Patrimonio S.p.A., lasciando pertanto in essere solo una garanzia politica e non più giuridica alla concessione dei beni culturali in gestione ai privati. Ma ci piace pensare che questa norma rientri semplicemente in quella che da più parti è stata definita finanza creativa.
Tuttavia, la medesima filosofia, e cioè perseguire il coordinamento tra pubblico e privato per superare due criticità di fondo quali la scarsa professionalità delle risorse umane impiegate nella pubblica amministrazione e l’eccessivo protagonismo tra amministrazioni diverse o fra organismi diversi della stessa amministrazione, è peraltro sostanzialmente riscontrabile nella legge n. 135/2001, relativamente alla previsione dei “Sistemi Turistici Locali” che, superando la rigida suddivisione amministrativa su base provinciale a fondamento degli attuali modelli di organizzazione turistica pubblica (APT), si propone di meglio caratterizzare e valorizzare un territorio con un’offerta integrata (fatta di risorse culturali e ambientali, gastronomia e prodotti tipici, tradizione e artigianato) con l’obiettivo di consolidare il tessuto produttivo in modo da raggiungere una massa critica, sia dimensionale di offerta che di interscambio tra imprese, più percepibile.
Del resto abbiamo visto come il turismo sia un importante indicatore di qualità di un sistema in considerazione della sua alta valenza intersettoriale (sicurezza, trasporti, sanità, ambiente, formazione professionale, politiche del lavoro), che un formidabile redistributore di risorse (in modo diretto e indotto, come tutti i settori labour intensive invece che capital intensive, con il plus di essere potenzialmente in grado di assorbire disoccupazione qualificata a costi relativamente contenuti).

Minore attenzione si presta, invece, alla sua capacità di vendere un territorio e di svolgere (insieme ad altri fattori come il livello di tassazione) una funzione di attrazione degli investimenti da parte delle imprese, sia italiane che estere. Ciò perché quasi mai si adattano politiche di marketing territoriale, intendendo con ciò un insieme di interventi, come quelli che hanno interessato Roma in occasione del Giubileo, che incidono in modo complessivo, creando più opportunità competitive in grado di rilanciare un’area.
E’ chiaro, dunque, che lo scenario politico e giuridico di riferimento, indica che il pensiero dominante, aldilà delle strumentali contrapposizione politiche, confida nel fatto che “valorizzazione e fruizione determinano ricchezze e combattano degrado e incuria”.

Proviamo a trarre allora alcune conclusioni:
• il mercato della cultura non esiste ancora, o esiste in misura estremamente limitata, se si dà all’eccezione mercato lo stesso significato che essa ha in tutti gli altri settori produttivi;
• dal modo di fare impresa nel settore culturale, traspare un’attenzione molto forte nei confronti degli interlocutori di sistema (istituzioni, mass-media, imprese), della ricerca del loro consenso (e probabilmente del loro sostegno finanziario), ma al tempo stesso una sostanziale generale indifferenza nei confronti del pubblico dei consumatori attuali e potenziali;
• il processo di valorizzazione verrà finalizzato allo sviluppo delle economie locali del territorio di riferimento;
• il valore socio-economico dei beni culturali è destinato a crescere in maniera direttamente proporzionale alla predisposizione di un ventaglio esteso ed eterogeneo di beni e servizi che devono avere una specifica valenza informativa. La qualità dei servizi resi e del merchandising disponibile nei musei deve migliorare in modo da ridurre il gap attuale tra consumo diretto (la visita) e il grado di soddisfazione che l’esperienza dell’acquisto in qualche modo finisce con il completare;
• sempre più importanza avrà la messa a sistema di beni e servizi per accrescere la permanenza dei turisti e la propensione allo shopping, variabili che risentono entrambe fortemente dell’appeal, dell’interesse che una località sa esercitare;
• orientamento al cliente, massimizzazione dell’offerta, autonomia e managerialità, specializzazione territoriale, coordinamento tra offerta turistica e culturale rappresentano i percorsi in evoluzione che dovranno essere seguiti con sempre maggiore convinzione e consapevolezza.

Rispetto alla complessità di questo scenario e alle sfide che bisogna affrontare, la più volte annunciata Agenzia Comunale di promozione turistica rischia di nascere inutile e superflua, sia per la sua missione sia per la disponibilità delle risorse economiche che si prevede siano messe a sua disposizione.

di Guido Improta

Il Palazzo delle Esposizioni – Azienda Speciale Palaexpo

Il Palazzo delle Esposizioni è il più grande spazio espositivo interdisciplinare nel centro di Roma, costituito da più di 10.000 metri quadrati, articolati su tre livelli dedicate alle mostre, alla fotografia e all’arte contemporanea. All’interno del Palazzo è presente una sala multimediale (con 200 posti), una libreria, un art shop, un ristorante e una caffetteria. Divenuto nel 1998 Azienda Speciale Palaexpo, costituisce oggi un vero e proprio ente pubblico con una gestione economica e giuridica a se stante.
Negli ultimi cinque anni il Palaexpo ha organizzato mostre e eventi di rilievo internazionale. Tra il 2002 e il 2003, invece, l’impegno e gli investimenti saranno destinati alla ristrutturazione del Palazzo delle Esposizioni. Inoltre nel 2001 sono state assorbite anche le Scuderie del Quirinale che con il Palazzo delle Esposizioni costituiscono spazi espositivi di prestigio.

Nel 1999 è stata inoltre costituita Zone Attive, società a responsabilità limitata, destinata a produrre eventi per i giovani. Sono stati realizzati: Enzimi, la Biennale dei Giovani Artisti e il Festival della Fotografia.
L’Azienda Speciale Palaexpo ha questi punti di forza: elevata autonomia gestionale, flessibilità decisionale conferitagli dallo Statuto; gestione di sedi di rinomato prestigio internazionale; Palazzo delle Esposizioni e Scuderie Papali sono spazi multifunzionali e facilmente adattabili a iniziative di varia natura.
Ha questi punti di debolezza: non è dotata di un capitale sociale; il fondo di rotazione ammonta a soli 433.82 euro; le due sedi che gestisce non possiedono una collezione permanente rendendo difficile lo scambio di opere con altre istituzioni internazionali.

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