L’ articolo 24 della Finanziaria che introduce la privatizzazione dei beni culturali, pur nel polverone delle polemiche e delle dispute suscitate, ha quantomeno avuto il merito di (ri)destare l’attenzione e stimolare il confronto a proposito della fruizione (anche turistica) del patrimonio storico-artistico in Italia. La diatriba apertasi sulla gestione e la tutela ha spinto editorialisti e politici , intellettuali e opinionisti di vario genere ad esprimere il proprio parere sugli svantaggi e i benefici che il nuovo regolamento potrà addurre.
Per centrare l’oggetto della contesa è bene partire proprio dall’articolo 24 che attesta la possibilità di “concedere a soggetti privati l’intera gestione del servizio concernente la funzione pubblica dei beni culturali, unitamente all’attività di concorso al perseguimento delle finalità di valorizzazione”.
Presentata in un primo momento dal ministro Urbani come “una rivoluzione”, la difesa d’ufficio della Riforma si è via via stemperata in generiche e vaghe dichiarazioni di smentita, quasi una marcia indietro di fronte al coro di proteste lanciate dal mondo dell’arte di mezza Europa.
Ma cosa preoccupa quotidiani come Liberation e El Pais? Cosa spinge i direttori dei più importanti musei del mondo – dal Louvre alla National Gallery di Washington , dalla Tate Gallery di Londra al Kunssthistoriches di Vienna – a sottoscrivere un appello al Presidente del Consiglio affinché non si proceda oltre nella delibera? Essenzialmente il timore che l’insediamento di privati nella gestione dei musei, aree archeologiche e pinacoteche sia direttamente proporzionale ad un uso improprio dei beni artistici e della cornice in cui sono ospitati: al rischio di tagli su spese vitali per un museo, come possono essere ad esempio la climatizzazione e la sorveglianza e direttamente proporzionale, infine, a un’eccessiva commercializzazione della cultura , svilita e banalizzata a una condizione di supermarket, come annotato in una intervista dal direttore del Louvre, Henri Loyrette.
A queste organizzazioni si è risposto da più parti sottolineando come, in fondo, l’apertura ai privati non rappresenti una novità assoluta per i nostri musei, visto che la gestione di servizi quali la biglietteria, i souvenir, i bookshop e la ristorazione è affidata da alcuni a soggetti privati: l’articolo 24 della Finanziaria, dunque, come estensione di una politica già avviata nelle precedenti legislature (legge 368 del 1998).
Eppure, accostare alla legge Ronchey il trasferimento tout court del patrimonio artistico italiano ai privati è operazione quantomeno azzardata, oltre che superficiale. Se nel primo caso venivano aperte le porte dei musei a soggetti non pubblici questo avveniva, per altro con risultati soddisfacenti dal punto di vista della rivitalizzazione e della fruizione degli spazi culturali, limitatamente a un livello commerciale. Nel secondo caso, invece, si approccia la gestione stessa dei beni culturali. Così, il passaggio dal pubblico al privato potrebbe avere come effetto una concezione della cultura eccessivamente mercantile, in un contesto in cui ci sono sì i visitatori che acquistano il biglietto, ma c’è anche e soprattutto la tutela delle opere e gli interventi a sostegno della tela da restaurare, come dall’emergenza archeologica da rinforzare, tutte operazioni che lo Stato non può demandare, Né convince il richiamo al modello statunitense, dove le fondazioni private gareggiano nelle donazioni. Lì infatti, i capitoli investiti nella cultura non presuppongono come idolo la rendita e il profitto, ma – con il sistema di defiscalizzazione – attendono a finalità di impronta prevalentemente mecenatesca.
E in Italia?La Finanziaria 2002 si muove in una direzione in cui il privato agisce non per spirito mecenatesco, ma soltanto in situazioni dove è conveniente intervenire, dove è possibile, in altre parole, trarre alti profitti. Premesso che la forbice fra i costi e ricavi nella gestione dei beni culturali è quasi sempre sbilanciata verso la prima voce – tranne rare eccezioni come il Colosseo – tutto ciò si potrebbero delineare situazioni in cui, per ingrassare gli utili, si tende a risparmiare nella manutenzione o a utilizzare impropriamente gli spazi espositivi.
Si delineano all’orizzonte, dunque, cene di gala ai piedi del Tondo Doni di Michelangelo?Conferenza stampa di una nuova bibita gassata sullo sfondo della Crocifissione di Masaccio?
Oltre ad un approccio più morbido del ministro Urbani, gli ultimi emendamenti presentati dall’opposizione hanno prodotto una modifica o sorpresa dello stesso articolo 24 in cui non si fa più riferimento all’attribuzione ai privati dell’intera gestione”, ma più genericamente si parla di “ “soggetti diversi da quelli statali” per la “gestione dei servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico”. In questo modo, se la tutela resterà saldamente nelle mani dello Stato ( come peraltro previsto dalla Costituzione) , anche per quanto concerne la gestione, difficilmente si arriverà a una cessione in blocco ai privati. Gestione o (cogestione) quindi, e non proprietà, con controlli rigidi caso per caso. Un po’ come auspicato da Corrado Augias: “il gestore propone , il sovrintendente dice sì o no, e controlla”.
Così, la strada maestra per la valorizzazione del patrimonio passa attraverso la defiscalizzazione per gli investimenti nella cultura (norma istituita con il collegato alla L. Finanziaria 2002) e la sinergia pubblico-privato, come sostenuto da Umberto Agnelli che cita gli esempi felici già realizzati con il Fai, il Museo Castello di Rivoli per l’arte contemporanea o il “Pecci “di Prato, o con la stessa Fondazione in Giappone, di cui egli stesso è presidente.
Un buon principio ispiratore, in sostanza, sancito dalla legge di finanziamento ai privati (norma istituita con il collegato alla L.Finanziaria 2002) che, introducendo la piena deducibilità del reddito di impresa delle erogazioni in favore di istituzioni pubbliche e private, concretizza de facto anche in Italia la possibilità che imprese e fondazioni private partecipino al miglioramento e ad un più efficiente utilizzo del nostro patrimonio culturale.
Solo minacce per il patrimonio artistico?
Certo è che lo stesso paesaggio e l’ambiente della penisola non vivono un momento fra i più rassicuranti. Così, alle dichiarazioni del sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi a proposito dell’abusivismo nella Valle dei Templi (dove il brutto sarebbe l’opera pubblica – e il viadotto Akragas lo è senza timore di smentita – mentre gli abusivismi della “zona A” tutto sommato non sono poi così gravi) fa da controcanto la Legge Lunardi con cui si sferra un corpo mortale alle funzioni di tutela e protezione dell’ambiente garantite dalla VIA, Valutazione d’Impatto Ambientale. Ora infatti, a guidare i criteri di approvazione dei progetti di edificazione non sarà più un’apposita commissione, ma un Comitato di Ministri, gli stessi che decidono di eseguire le opere su cui sono poi chiamati ad esprimere un giudizio.
Eppure, al di là dei pericoli relativi ai beni ambientali e alla tutela del paesaggio, non tutto quello che l’articolo 24 porta con sé è da gettare a mare. Le lacune della gestione statale, pur negli sforzi delle ultime legislature, so spalmano lungo tutta la penisola. Gli esempi di scantinati in cui si sono ammassate opere di pregio che lo Stato non riesce a portare alla luce, sono a tutti noti. Dal momento che il futuro regolamento non esclude la collaborazione di Regioni, Province, Comuni ed enti cooperativi, non è sbagliato pensare ad uno snellimento dell’apparato burocratico attraverso un maggior peso attribuito, a titolo di esempio, alle Regioni. L’art.24 della Finanziaria, dunque, andrà ad incidere nella gestione e nella tutela unitamente ad un altro strumento normativo recentemente approvato: la riforma dell’articolo 117 della Costituzione.
Passata quasi in sordina, tale riforma apre invece importanti prospettive nell’immediato futuro. Si accresce, infatti, il potere delle Regioni che possono ora occuparsi dell’aspetto gestionale delle risorse culturali italiane. Il rischio di frammentazione e del possibile attrito fra le diverse esigenze locali rende, certo, il quadro nebuloso. Tuttavia proprio perchè all’inizio di un cambiamento ancora da definire nelle linee essenziali, occorre seguire con fiducia i nuovi processi di valorizzazione e di investimento che verranno.
D’altronde, se il privato è troppo concentrato sul business e si rischia una svalorizzazione del patrimonio artistico come dei beni ambientali, il pubblico è a sua volta intrappolato in tediose pastoie burocratiche (vedi il recente dibattito sul Colosseo: area archeologica o monumento?Per stabilire a quale Sovraintendenza spetta il dovere di occuparsene). Il risultato, in ambedue i casi è la non gestione, la non tutela o comunque il mal funzionamento.
Da dove ripartire? Forse la strada sa seguire è il cosiddetto “distretto culturale” di matrice britannica, che vincola territorio e beni culturali, tenendo conto del tessuto economico e sociale presente. Un distretto che può essere organizzato come Sistema Turistico Locale partendo dalle analisi svolte da Pietro Valentino dove si esprime l’esigenza “una forte integrazione rea le attività del settore culturale e quelle dei settori connessi (turismo in primo luogo),,,integrazione perseguita attraverso una specializzazione territoriale”.
Le ricadute sul turismo
Ma la querelle scaturita alla discussione parlamentare dell’articolo 24 apre ulteriori riflessioni
a proposito dello scambio delle opere. Con l’intervento del privato c’è il rischio concreto che i prestiti di opere d’arte diverranno più onerosi, con esborsi crescenti a seconda della rilevanza dei capolavori artistici richiesti. Come risultato si potrebbe registrare un brusco stop della condivisione di tali beni, una sconfitta per quanti credono che attraverso la conoscenza di altre culture si possano sanare differenze e diffidenze tra popolazioni, razze e civiltà diverse.
Tutto questo, in un momento in cui, al di là delle dispute tutela pubblica/gestione del privato, anche l’Italia si trova ad affrontare il subbuglio e la distribuzione dell’outgoing mondiale in seguito alle vicende dell’11 settembre.
Va da sé che anche le manifestazioni culturali – e di flussi turistici che da queste vengono ingenerati – siano state coinvolte da quando avvenuto a New Work e da quanto ancora sta avvenendo in Afganistan. Naturalmente, analizzando i nuovi scenari che potranno interessare il turismo culturale nei mesi futuri si corre il rischio di soffermarsi su problemi che sembrano poco importanti rispetto alla tragedia avvenuta e alle implicazioni militari ed economiche ad esso legate. Eppure, la natura stessa del turismo culturale inteso come scambio ed arricchimento interiore, crescita e conoscenza reciproca fra diverse popolazioni, può contribuire ad interrompere, almeno parzialmente, il clima plumbeo che ha investito l’umanità nelle settimane successive alla catastrofe e che permane tuttora.
Giacchè poi si parla di economia, non va ignorato il peso che il brusco stop di viaggi, voli, spostamenti intercontinentali comporta e comporterà sulle dinamiche produttive e occupazionali.
Il susseguirsi di previsioni e prospettive stilate dagli organismi preposti alla valutazione dell’incoming turistico restituiscono, in effetti, numeri destinati a far riflettere. Le cifre, fredde senz’altro, danno un quadro non roseo per l’immediato futuro del turismo. Ma, al di là dei dati e delle previsioni, rimane l’importante nodo relativo ai mezzi e alle misure per garantire sicurezza e serenità a chi decide di spostarsi. Il turismo, soprattutto quello di matrice culturale, in realtà non è fatto solo di prenotazioni alberghiere che saltano, di voli inesorabilmente cancellati o di punti percentuali in meno per arrivi e partenze. Nella sua implicita essenza di scambio e confronto culturale, infatti, sono racchiusi elementi che travalicano il business stesso.
Importanti manifestazioni culturali dal considerevole successo di pubblico permettono l’incontro e l’approfondimento di “civiltà differenti”. Scambi culturali come quelli, ad esempio, ingenerati dai più di 400 eventi compresi nella manifestazione “Italia in Giappone” partita a Tokyo nella primavera del 2001, rappresentano efficaci vetrine sull’arte, la cultura, i prodotti e i sapori di un paese. Inoltre possiedono un surplus valoriale non quantificabile con le sole rivelazioni di indice economico, perché in grado di stimolare rapporti e relazioni che inducano individui di culture e origine diverse alla comprensione e alla curiosità reciproca.
Comprensione, da con-prendere, prendere insieme. E’ propria nell’etimologia della parola che
può essere rintracciata l’essenza del turismo culturale fatto sì di alberghi, aerei e prenotazioni, ma soprattutto legato al concetto di interscambio culturale, di confronto con l’altro e con l’alterità.
Ora, le iniziative prese dalle principali organizzazioni del settore nelle ore successive al convulso e drammatico evolversi degli avvenimenti internazionali, hanno avuto come obiettivo proprio quello di assicurare le condizioni sufficienti per praticare quelle attività di scambio e di relazione che possiamo racchiudere nel significato del verbo comprendere.
Una normalità vigilata?
Riguardo al turismo culturale, poi, l’evolversi degli accadimenti dopo l’11 settembre, pone altri motivi di riflessione. Il turismo culturale è fondamentalmente legato all’evento: sia essa la restituzione al pubblico di un’importante pinacoteca cole la Galleria Borghese, l’apertura di complessi museali contraddistinti dalla qualità della progettazione architettonica come la Ciudad de les Arts y les Ciéncies di Santiago Calatrava a Valencia o il prestito temporaneo di lavori solitamente non visibili come la “Dama dell’Ermellino” di Leonardo.
Ma la forma evento che si avvale quasi sempre del prestito delle opere, quanto è ancora concretizzabile? Non è errato, infatti, considerare le opere d’arte impacchettate e inviate in tutto il mondo come dei passeggeri un po’ speciali in attesa di partire, con i rischi e i timori del caso. Potranno avere un ritorno agevole nelle loro sedi espositive nel caso di avvenimenti bellici? E’ inoltre, nel momento in cui l’opera d’arte è in partenza per un’esposizione internazionale, non è del tutto scongiurato il pericolo che qualche dirottatore possa servirsi dell’opera per compiere altre simboliche, quanto rovinose, azioni dimostrative.
C’è dunque la concreta possibilità che le manifestazioni e gli scambi che si stavano sviluppando vengano bloccati. Così, se 50 opere destinate al Metropolitan Teien Art Museum di Tokyo per la mostra “Caravaggio e i suoi primi seguaci” sono regolarmente partite su voli di linea, il direttore del Blanton Museum di Austin ha giudicato per il momento imprudente l’invio di quadri in Italia per la mostra “I capolavori della Suida Monning Collection”, prevista al Civico di Cremona dal 5 ottobre.
Del resto bunkerizzare e sguarnire i musei italiani di parte di capolavori più celebri significherebbe fare dell’Italia un paese che si attende di non essere visitato. Ciò comporterebbe, al di là dell’inevitabile calo dei flussi turistici internazionali e delle altrettanto inevitabili manifestazioni di panico, l’apertura di una riflessione che paesi costretti a convivere quotidianamente con l’incubo di attentati hanno già affrontati: garantire la normalità pur sapendo di essere in uno stato di reale o potenziale guerra.
Occorre una normalità vigilata che è forse l’ultimo dei problemi nella presente situazione di emergenza. Ma che toccando la cultura, l’arte e la storia mondiale, va a coinvolgere potenziali (utopistici?) strumenti da cui forse ripartire per avvicinare diverse identità culturali e comporre spaccature fra mondi che, dalla reciproca non conoscenza, rischiano di dirigere il pianeta verso conflitti sempre più distruttivi.
Militarizzare determinate aree non può rappresentare una risposta, perchè muovendosi in tal senso si rischia di snaturare l’essenza stessa delle manifestazioni culturali e degli spazi adibiti per ospitarle. Le piazze cesserebbero di espletare la loro funzione di agorà, di scambio appunto fra residenti ed ospiti, per trasformarsi in scheletrici simulacri dove magari scattare una foto, ma dove risulterebbe improbabile cogliere, di nuovo comprendere, l’identità del luogo.
In questo senso, i primi dispositivi di sicurezza adottati in Italia si muovono nel segno di una “sorveglianza delicata”, vale a dire di una vigilanza discreta che esclude l’intervento dell’esercito e prevede, come nel caso di Venezia, giri continui di pattuglie nei luoghi a maggiore rischio senza vigilanza fissa oppure, è il caso di Firenze, la divisione delle città in zone da proteggere e agenti in borghese mescolati ai turisti. Ma è il rapporto vivo tra il patrimonio artistico e la comunità dei residenti che rende possibile una maggiore serenità anche per i visitatori.
L’informazione sui beni culturali
Del resto gli attentati terroristici, la guerra e il clima di tensione internazionale pur incidendo pesantemente sui consumi in generale, dovrebbero colpire solo marginalmente il turismo culturale. Le analisi delle ultime settimane parlano di una ridistribuzione dei flussi turistici indirizzati verso spostamenti di breve distanza, senza cali vistosi per le tradizionali mete europee che dell’arte e della storia sono gelosi custodi.
Così, la domanda, e la necessità di informazioni maggiormente dettagliate e aggiornate, hanno determinato un interesse che investe una massa sempre più estesa di fruitori del fenomeno cultura. Un pubblico che acquisisce informazioni dalla stampa specializzata, dalla rivista di settore, dal crescente numero di trasmissioni televisive e canali tematici sull’arte e il turismo culturale.
Molte anche le possibilità offerte dalla rete, se è vero che i siti Internet legati ai viaggi trovano una maggiore corrispondenza di impiego nella comunicazione e nell’informazione rispetto alla vendita, come dimostrato da un recente studio elaborato negli Stati Uniti che ha posto in rilievo come il 60% dei turisti nordamericani consulti Internet per le proprie vacanze, ma all’interno di questa percentuale solo il 3% conclude poi con l’acquisto on line.
Informazione, consultazione, comunicazione. L’Italia, paese che per eccellenza può e deve comunicare a livello internazionale notizie aggiornate e in tempo reale sul proprio patrimonio artistico-culturale e sulle iniziative ad esso legate, dispone in tal senso dalla metà di luglio di un nuovo supporto telematico che va ad affiancarsi al sito centrale del Ministero dei Beni Culturali. Il nuovo arrivato trova spazio all’interno del portale Ansa.it e si presenta come un sito tematico interamente rivolto ai beni culturali con aggiornamenti in tempo reale, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno. Ansa Beni Culturali è frutto della collaborazione fra la primaria agenzia di stampa italiana e lo stesso Ministero dei Beni Culturali. Sviluppa i propri contenuti informativi sugli avvenimenti a scala regionale,nazionale e internazionale ed è corredato, oltre che dalle news, da rubriche incentrate su musei, mostre, aste, restauri e inchieste.
E’ uno strumento informativo utile per riprendere il confronto e la conoscenza, anche grazie alla diffusione della pratica turistica.
di Daniele Pascucci